A fronte del via libera da parte del Consiglio dei Ministri del nuovo ddl di riforma dell’Università, il 28 Ottobre, ci troviamo nella contingenza di stendere delle linee critiche sugli intenti dell’iniziativa governativa. Le riflessioni che seguiranno sono frutto di discussione e dibattito di un'assemblea di studenti tenutasi a Palazzo Nuovo martedì 10 novembre.
Il ddl riorganizza la governance di ateneo, in particolare il C.d.A assumerà le funzioni di indirizzo strategico, di programmazione finanziaria e sarà composto per almeno il 40% da esterni all’università. Spariranno le facoltà (e i relativi consigli) e la didattica sarà organizzata dai dipartimenti.
Saranno possibili federazioni tra atenei o tra atenei ed altri enti di formazione.Viene istituito un fondo per il merito, che erogherà borse di studio e prestiti d’onore tramite delle prove nazionali standard. Per accedere alla docenza sarà necessario ottenere una abilitazione nazionale, la cui commissione giudicante sarà composta da docenti ordinari. Chi deciderà dell’effettiva assunzione saranno delle commissioni di professori ordinari istituite dai singoli atenei. La figura del ricercatore sarà unicamente a tempo determinato, il contratto sarà di 3 anni rinnovabile per altri 3, al termine dei quali o il ricercatore accede al rango di professore associato o dovrà terminare il rapporto con l’università.
In termini generali, questo provvedimento si inserisce in una successione di riforme che negli ultimi anni si sono concentrate sulla riorganizzazione dell’università e sulla sua successiva dismissione dal settore pubblico. Rispetto agli intenti che questo governo aveva dichiarato in merito all’università, ovvero un forte attacco al baronato unito alla volontà di rendere gli Atenei produttivi ed efficienti, ci sembra che, nel complesso, questo ddl lasci inalterata la gestione feudale e agevoli piuttosto l’entrata di aziende e privati con un ruolo parassitario.
Governance
Vediamo in maniera ambivalente la riorganizzazione progettata dal governo. Un primo aspetto è l’evidente volontà di ridurre fortemente l’investimento pubblico per il sistema universitario, probabilmente per far fronte alla crisi e ad un debito pubblico ormai esploso, che si accompagna ad una verticalizzazione del potere negli atenei finalizzato a poter applicare speditamente i pesanti tagli previsti, in particolare a scapito di ricercatori precari, esternalizzati e studenti. Gli spazi di democrazia all’interno dell’università, già insufficienti, vengono completamente eliminati.
Ma l’aspetto più importante è l’entrata dei privati nel C.d.A, l’organo che avrà maggior potere all’interno degli atenei. In un paese come l’Italia, in cui non è mai stato presente un vero investimento nella formazione da parte del settore privato, la privatizzazione dell’università passa attraverso la presenza delle aziende nei posti di potere degli atenei senza che sia necessario alcun investimento. Creando quindi una commistione di pubblico e privato che poco ha di positivo per chi vive, e fa vivere, l’università ogni giorno, ma promette una veloce rendita in termini di forza lavoro cognitiva formata ad uso delle aziende presenti in C.d.A .
Ambivalenza si ritrova anche sul tema delle federazioni. Possibilità da sfruttare per ridurre, razionalizzare e tagliare ma, ancora una volta, creazione di ibrido pubblico-privato. Infatti gli atenei potranno federarsi anche con « [..] enti ed istituzioni operanti nel settore della ricerca e dell’alta formazione», quindi anche con agenzia di formazione non pubbliche. Ricordando che questo governo ha come obiettivo l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ci sembra che questo punto vada proprio in quella direzione. Enti più affermati e accreditati permetteranno alle università federate di offrire un titolo di studio con più valore rispetto ad altri. L'orizzonte che si vuole creare e quello di un mercato della formazione egemonizzato da pochi grandi poli.
Meritrocrazia
Una sezione del ddl è dedicata all'introduzione di norme atte a favorire un sistema meritocratico dell'istruzione universitaria. Il principio è semplice: dobbiamo ridurre i costi e allo stesso tempo incentivare gli studenti meritevoli e virtuosi e allora solo i migliori potranno andare avanti. In realtà, nella riforma si parla solamente dell'istituzione di un fondo di merito da gestire a discrezione del Ministero (quello dell'Economia e delle Finanze, non quello dell'Istruzione!) e sostanzialmente non ci sembra introdurre pesanti cambiamenti. Anche perchè la meritocrazia costa e non è nemmeno pensabile se la prima preoccupazione è gestire i tagli dell'anno scorso e non far «derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Inoltre come si può conciliare un discorso di risparmio tramite cui spariscono i servizi minimi per gli studenti (case, mense, libri...) con il diritto allo studio?
Detto questo, la retorica della meritocrazia è presente in questo ddl così come in ogni discorso di ogni ispirato riformatore dell'università. Ci sembra allora il caso di demistificare questo linguaggio e mostrare, molto brevemente, cosa vi si nasconde dietro.
E' evidente, allora, che laddove si parla di meritocrazia bisogna sempre intendere nuovi sbarramenti o colli di bottiglia, atti a limitare gli studenti che seguiranno questo o quel percorso formativo. Laddove si parla di criteri per stabilire il merito, bisogna intendere che questi criteri, lungi dal misurare effettivamente una reale dinamica virtuosa sulla qualità dei saperi prodotti e trasmessi, sono a tutti gli effetti criteri aziendalisti, che determineranno tempi e percorsi di vita degli studenti, misurandone di volta in volta l'efficenza all'intermo di schemi produttivi. Ancora, laddove si parla della creazione di percorsi di eccellenza, bisogna intendere la recinzione dei già esistenti percorsi di studio, limitandone e rendendone talvolta esclusivo l'accesso. Si può dire che la meritocrazia non è altro che uno strumento in più per gestire i pochi fondi destinati all'università e alla ricerca ma, è meglio ribadirlo, non nella direzione di sviluppare un sistema di scambio e produzione cognitiva di alto livello, bensì nella direzione di gestire e differenziare i flussi di studenti, incanalandoli nei percorsi formativi che sembreranno più forieri di profitti. Ovvero si tratta di poter fare delle previsioni aziendali sulla testa di migliaia di persone, per vedere quanti dovranno studiare un argomento, quanti dovranno arrivare a un determinato livello di studio, quanti avranno diritto a borse di studio, quanti avranno diritto (sigh!) a indebitarsi con il prestito di merito per conseguire l'agognato titolo di studio. Insomma, è bene rendere chiaro questo punto: ci sembra che dietro la logica della meritocrazia non ci sia nessuna attenzione alla valutazione qualitativa dei saperi trasmessi all'interno degli atenei, ma soltanto un profondo interesse a introdurre elementi di quantificazione all'interno del mercato formativo in modo tale da rendere possibile il profitto privato e la speculazione. In ultima lettura dobbiamo dire che al linguaggio della meritocrazia come introduzione di schemi aziendalistici e quantitativi non abbiamo altro da opporre che la qualità dei nostri percorsi di studio.
Attenzione: la qualità dei nostri percorsi di studio, non è da intendere come la qualità degli attuali corsi universitari, tutt'altro! Non difendiamo l'università in cui ora viviamo, questo regno feudale pieno di privilegi per pochi e che oramai è in crisi. I nostri percorsi di studio sono da intendere come le dinamiche di trasmissione e produzione cognitiva che sono scaturite, ad esempio, dalla mobilitazione dell'anno scorso, i seminari e i momenti di dialogo che l'Onda ha saputo costruire, la capacità che abbiamo, individualmente ma sopratuttto attraverso la cooperazione collettiva, di reperire informazione e costruire discorso, l'innovazione dei linguaggi di cui tutti quanti siamo protagonisti. Insomma, se c'è da trovare la qualità all'interno degli atenei è solo una coincidenza che si trovi nelle stesse aule e negli stessi corridoi dell'accademia, perchè quella qualità è frutto della cooperazione di centinaia di migliaia fra studenti e ricercatori al di fuori dei normali percorsi di formazione, in maniera del tutto eccedente rispetto a questi. Questa qualità, in ultima istanza, è il pubblico che difendiamo, ovvero il sapere come produzione comune e bene che non si lascia risucchiare a tutti i costi dalle logiche del profitto.
Reclutamento, precarizzazione
Con questa riforma, inoltre, cade ogni speranza di veder debellato il potere baronale e di una migliore prospettiva per assegnisti e ricercatori precari. Il meccanismo per accedere alla docenza vede un livello nazionale ed uno locale totalmente in mano al potere baronale, la prospettiva di un ricercatore è quindi, ancora, quella di assoggettarsi a tale potere, pena il non rinnovo del contratto o la non abilitazione alla docenza. I problemi che i ricercatori precari affrontano tutti i giorni non sono toccati. Per un verso, nessuna delle proposte elaborate in questi anni dai precari viene assunta, e resta la giungla di contratti precari che caratterizzano l'università attuale (gli assegni di ricerca, le borse di studio, i contratti di docenza e altro), con la ratificazione dei contratti di docenza gratuiti.
Per un altro verso si riduce lo spazio per la ricerca e si consolida la tendenza alla liceizzazione dell'università pubblica, in cui il compito prevalente delle figure “stabili” sarà la didattica.
I baroni possono dunque rallegrarsi delle «norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernente il reclutamento». L’istituzione dell’“abilitazione scientifica nazionale” per i docenti di prima e seconda fascia, di durata quadriennale, è decisa da una commissione nazionale formata mediante sorteggio tra professori ordinari. Ciò che viene fatta passare per una norma che scavalca le lobby accademiche locali, non solo lascia l’“abilitazione” nelle mani delle cricche degli ordinari a livello nazionale, ma poche pagine più avanti (articolo 9, comma 2, lettera c) fa rientrare dalla finestra ciò che era apparentemente uscito dalla porta. La decisione finale, infatti, spetta alle commissioni locali composte da ordinari e, nel caso dei ricercatori, da alcuni associati. Il posto da ricercatore, poi, come già stabilito dalla legge Moratti nel 2005 è posto in esaurimento, quindi sostituito da contratti di soli tre anni rinnovabili – previa valutazione – un’unica volta, aumentando così la ricattabilità dei ricercatori stessi nel vincolo individuale con il docente di potere.
Ancora una volta, dunque, le campagne stampa che parlano di abolizione del precariato sono chiaramente demagogiche: questa riforma il precariato della ricerca lo moltiplica all'infinito! Per di più, la riforma promette solo tagli e non è previsto alcun incremento di fondi: non si capisce quindi con quali soldi si potranno assumere i ricercatori a tempo determinato, il cui costo è superiore a quello degli attuali associati.
Il ddl si muove in continuità con la legge 133 dello scorso anno, così anche noi studenti, ricercatori, precari ed esternalizzati dobbiamo riprendere le moblitazioni in continuità con lo scorso autunno. Una lotta che, per essere vincente, non deve trincerarsi dietro una ottusa difesa del sistema pubblico già presente ma deve andare oltre rivendicando diritti, spazi e rivoluzionando l'università secondo i bisogni di chi l'università la vive tutti i giorni. Questo ddl deve ancora affrontare la discussione parlamentare, possiamo e dobbiamo fermarlo! Martedì 17 sarà un'occasione per rendere palese la nostra protesta, scendiamo in piazza!
Studenti e studentesse dell'Università e del Politecnico
contro la Riforma Gelmini
Nessun commento:
Posta un commento